Identità e violenza, un libro da (ri)leggere

amartya sen

Identità e violenza di Amartya Sen – Ed. Laterza (2006)

Ci sono momenti in cui si perde la pazienza, la paziente attesa di vedere un miglioramento – che non può non avvenire – dei rapporti tra esseri umani. Piccoli passi verso un futuro migliore, più pacifico, meno conflittuale. Un miglioramento al quale, anche con piccole cose, tanti di noi partecipano con passione.

Ne parlavo con un caro amico che, anche lui preso da un attimo di disillusione, mi ha detto:

… negli anni, nei decenni, nei secoli, sempre le stesse modalità: il capopopolo che sbraita sgrammaticato, la massa lobotomizzata che avvampa, inveisce e grida istericamente, il capro espiatorio che subisce.

Sempre così, sempre lo stesso spot trito e ritrito che viene proiettato sullo schermo/scherno della vita. Ma, del resto, questo è il mondo: un luogo puzzolente e sovraffollato dominato dalla violenza e dall’ignoranza, l’una e l’altra unite in mutua amplificazione.

Sapevamo entrambi che non è proprio così. Ma devo confessare che certe affermazioni di personaggi tipo Matteo Salvini mi fanno rabbrividire.  Mi verrebbe la voglia di imbracciare un lanciafiamme, prenderli di mira ed incenerirli … poi, invece, riapro il libro di Amartya Sen e lo rileggo… e credo che anche i simpatizzanti di Salvini dovrebbero leggerlo.

«Gli eventi violenti e le atrocità degli ultimi anni hanno portato un periodo di terribile confusione e spaventosi conflitti. La politica dello scontro globale è spesso vista come un corollario delle divisioni religiose o culturali nel mondo. Il mondo, anzi, è visto sempre di più, quanto meno implicitamente, come una federazione di religioni o di civiltà, ignorando così tutti gli altri modi in cui gli esseri umani considerano se stessi.

All’origine di questa idea sta la curiosa supposizione che l’unico modo per suddividere in categorie gli abitanti del pianeta sia sulla base di qualche sistema di ripartizione unico e sovrastante.

La suddivisione della popolazione mondiale secondo la civiltà o secondo le religioni produce un approccio che definirei «solitarista» all’identità umana, approccio che considera gli esseri umani membri soltanto di un gruppo ben preciso (definito in questo caso dalla civiltà o dalla religione, in contrapposizione con la rilevanza un tempo attribuita alla nazionalità o alla classe sociale).

L’approccio solitarista può essere un buon metodo per interpretare in modo sbagliato praticamente qualsiasi abitante del pianeta.

Nella nostra vita quotidiana noi ci consideriamo membri di una serie di gruppi: facciamo parte di tutti questi gruppi. La stessa persona può essere, senza la minima contraddizione, di cittadinanza americana, di origine caraibica, con ascendenze africane, cristiana, progressista, donna, vegetariana, maratoneta, storica, insegnante, romanziera, femminista, eterosessuale, sostenitrice dei diritti dei gay e delle lesbiche, amante del teatro, militante ambientalista, appassionata di tennis, musicista jazz e profondamente convinta che esistano esseri intelligenti nello spazio  con cui dobbiamo cercare di comunicare al più presto (preferibilmente in inglese).

Ognuna di queste collettività, a cui questa persona appartiene simultaneamente, le conferisce una determinata identità. Nessuna di esse può essere considerata l’unica identità o l’unica categoria di appartenenza della persona. L’inaggirabile natura plurale delle nostre identità ci costringe a prendere delle decisioni sull’importanza relativa delle nostre diverse associazioni e affiliazioni in ogni contesto specifico.

Quando le prospettive di buoni rapporti tra esseri umani diversi sono viste (come sempre più spesso accade) principalmente in termini di «amicizia tra civiltà» o di «dialogo tra gruppi religiosi», o di «relazioni amichevoli tra comunità diverse» (ignorando i moltissimi, diversi modi in cui gli individui si relazionano fra di loro), i progetti per la pace vengono subordinati a un approccio che «miniaturizza» gli esseri umani.

È la nostra comune appartenenza al genere umano a essere messa gravemente in discussione ogni volta che le innumerevoli divisioni esistenti nel mondo vengono unificate in un sistema di classificazione spacciato per dominante, che suddivide le persone sulla base della religione, della comunità, della cultura, della nazione, della civiltà (trattando ognuno di questi criteri come unico criterio valido nel contesto di quel particolare approccio alla guerra e alla pace).

Trascurare la pluralità delle nostre affiliazioni e le necessità di una scelta razionale rende più cupo il mondo in cui viviamo. Ci spinge nella direzione delle terrificanti prospettive dipinte da Matthew Arnold in Dover Beach:
And we are here as on a darkling plain
Swept with confused alarms of struggle and flight,
Where ignorant armies clash by night.
Possiamo fare meglio di così.»

(dalla prefazione di Identità e violenza – Amartya Sen – Ed.Laterza 2006)

“E siamo qui, come in una distesa sempre più buia / spazzati da allarmi confusi di lotta e di fuga / dove eserciti ignoranti si affrontano nella notte.”

Tiziano Matteucci
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"Siede la terra dove nata fui / su la marina dove ’l Po discende / per aver pace co’ seguaci sui." (Dante Alighieri - Inferno, V). Per il resto non c'e' molto da dire. Pensionato italiano che ora risiede in una cittadina del nord ovest della Thailandia per un assieme di causalità e convenienze ... c'è solo una cosa certa: "faccio cerchi sull'acqua ... per far divertire i sassi" (Premdas)
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