Insurrezione nella Thailandia del Sud: terra, giustizia, sesso e religione
KUALA LUMPUR (Asiablog) – L’insurrezione della Thailandia del sud è una “guerra dimenticata“, uno di quei conflitti che difficilmente finisce sulle prime pagine dei giornali. Il profondo sud è di gran lunga la regione meno nota della Thailandia. Parole come Yala, Pattani, Narathiwat, Tak Bai, o Krue Se sono sconosciute ai più. Questo nonostante il numero delle vittime di questo conflitto nell’arco dell’ultimo decennio sia simile a quello della Striscia di Gaza.
Questo reportage di Mark Oltmanns e Patrick Winn ci offre uno sguardo su una parte di Thailandia decisamente lontana rispetto all’immagine delle brochure turistiche per vacanzieri occidentali o cinesi.
Ad emergere è l’incomunicabilità di due mondi: la ragione di tanti conflitti.
Da una parte i civili thailandesi di religione buddista ed etnia tai, ai quali la giunta militare ha recentemente distribuito centinaia di fucili d’assalto, una decisione controversa che rischia di aumentarne il settarismo. Conosciamo una giovane donna dallo sguardo severo. E’ entrata a far parte di un gruppo para-militare buddista, decisione presa dopo aver assistito ad un sanguinoso attacco dei ribelli. Sta imparando a sparare al poligono di tiro. La donna dichiara:
“I ribelli vogliono prendere la nostra terra. Ma noi thailandesi non lo permetteremo. Perché amiamo il nostro Paese.”
Dall’altra parte ci sono i thailandesi di religione musulmana ed etnia malese, sospettati di forti simpatie per i ribelli che lottano per l’autonomia o la totale indipendenza da Bangkok. Un’anziana attivista dichiara:
“gli ufficiali del governo non amano i thailandesi musulmani. Accusano tutti noi di aiutare i ribelli. Ma quello che i musulmani vogliono veramente è governarsi da soli […] e usare le leggi religiose islamiche”.
La donna racconta del marito 56enne assassinato, secondo molti per via del suo attivismo politico, e della polizia che non ha fatto nulla per catturare l’assassino. Il figlio 20enne è sopravvissuto al Massacro_di_Tak_Bai, un’azione brutale delle forze di sicurezza thailandesi che causò la morte di 85 manifestanti, in maggioranza giovanissimi. Come in altri casi di violenza di stato in Thailandia – si pensi solamente al caso Fabio Polenghi – le vittime giacciono nella tomba mentre i carnefici godono di impunità e si appuntano medaglie sul petto.
“Non c’è giustizia”, dice la donna. “Stiamo combattendo per la giustizia.”
Il documentario ci mostra anche un uomo in divisa, che sorridendo ripete la versione ufficiale che narra di un profondo Sud dove “il 100%” dei cittadini musulmani sta dalla parte dell’esercito. Una versione dei fatti “rosea”, secondo il giornalista Patrick Winn; o del tutto fantasiosa, secondo chi scrive.
Interessanti anche le parole, in buon inglese, di un anziano ex leader dei ribelli, ora rifugiato oltre il confine, in Malaysia. L’ex guerrigliero dichiara di non essere d’accordo con le bombe nelle strade e nei mercati che mietono vittime civili. E le bombe nei night club? “Quella è un’altra storia”, dice il jihadista, che Patrick Winn descrive come “moderato” rispetto ai più giovani e radicali guerriglieri operanti in Thailandia.
Il documentario si chiama Jihad a luci rosse: il vizio thailandese sotto attacco.