Quando ci si reca in un paese asiatico spesso ci si chiede se cinesi, coreani e giapponesi possano distinguersi tra loro solo dandosi una breve occhiata. Per noi occidentali probabilmente differenze non ce ne sono, ci sembrano tutti uguali. Tuttavia, discutendo dell’argomento nella mia classe interculturale all’Osaka Nihongo Kyoiku Center, molti ragazzi cinesi e coreani sostenevano che per loro è molto semplice capire. Per una ragazza cinese gli uomini coreani sono mediamente alti e portano per la maggior parte capelli lunghi o a “caschetto”, le ragazze sono mediamente più alte delle giapponesi e delle cinesi e spesso fanno abuso di rimedi estetici. I giapponesi e coreani sostengono che i cinesi si vestano male, senza un minimo gusto o attinenza all’ambiente che frequentano, creano code nei negozi, insomma non si comportano da giapponesi. Un po’ poco come motivazione penserete, eppure testando il loro criterio nella mensa dell’istituto, senza conoscere le persone a loro indicate, indovinavano al primo colpo la nazionalità.
Esistono però nelle società asiatiche alcuni tipi di discriminanti che non riguardano caratteristiche fisiche, linguistiche o stilistiche. Nella società giapponese contemporanea c’è ancora chi conosce, o crede che sia ben fondata, la differenza tra giapponesi “normali” e giapponesi “inferiori”.
L’origine di questa divisione sociale risale al periodo Edo (1615-1871); in quell’epoca il termine eta indicava coloro che per lavoro (macellai, boia, conciatori di pelli, becchini) dovevano maneggiare corpi morti e sangue di umani e animali. Gli eta erano giuridicamente inesistenti, emarginati in ghetti nelle are periferiche delle città. Il motivo di questa discriminazione era legato alla natura impura degli elementi che maneggiavano quotidianamente secondo i precetti dello scintoismo e del buddismo. Il ripristino del potere imperiale (1871) a scapito dello Shogun, accompagnò una serie di riforme dell’apparato statale compresa la cancellazione dello status quo che impediva il passaggio da una gruppo societario all’altro nella vecchia struttura sociale mibun. Apparentemente la discriminazione non era più percepibile in quanto i Burakumin (ovvero i discendenti di questi gruppi fuoricasta) erano e sono tuttora indistinguibili dal resto della popolazione giapponese. Tuttavia questo gruppo sociale è stato vittima di soprusi, ingiustizie e discriminazioni fino a tempi recenti.
Oggi le stime indicano che il numero della popolazione Burakimin si aggiri intorno ai 4 milioni, ovvero circa il 3% della popolazione; anche se le loro condizioni di vita sono migliorate rispetto al passato, la maggior parte vive in ghetti senza mura, in quartieri adiacenti ai grandi centri di sviluppo socioeconomico costituendo, come duecento anni fa, una città nella città. “Dove c’è un centro importante come Nanba o Umeda, la zona intorno è spesso così…la gente è così…”. Ancora oggi svolgono impieghi considerati di serie B o addirittura ignobili come la gestione di sale da gioco pachinko, preparatori funebri, becchini, macellai, operai edili. Quando, per conto di un designer italiano di mia conoscenza – desideroso di vendere le sue urne funerarie in Giappone -, cercai l’aiuto della mia padrona di casa, mi sentii rispondere in questo modo:
“Se la mia famiglia scoprisse questo tipo di business… potrebbe uccidermi”.
Le conseguenze di questa odierna “ghettizzazione” sono un bassissimo livello di istruzione e una condizione socio-economica disagiata. La preclusione per i giovani di ambire ad una carriera di successo basata su merito, sacrificio e studio spinge molti ragazzi ad abbracciare uno stile di vita ai margini della legalità, entrando a far parte di piccole gang o di grande organizzazioni criminali (Yakuza). Alcuni Burakumin arrivano addirittura a rinnegare le proprie radici, a fuggire, cercare una nuova vita in un’altra città. Molti invece non ne sono per nulla a conoscenza. Spesso accade che vengano a sapere da amici, colleghi di lavoro, compagni di scuola della loro “diversità”. La madre che vieta ai figli di frequentare il compagno di scuola Burakumin è forse il comportamento più esemplificativo. Fortunatamente la situazione sta migliorando con il tempo. Dalla fine della seconda guerra mondiale sono nate varie associazioni anti-discriminazione ed il governo ha emanato una serie di leggi a favore dell’integrazione della comunità Burakumin nel tessuto economico e sociale del Paese. Le famiglie Burakumin possono ricevere un assegno che consenta di integrare il proprio reddito, riuscendo così a garantire un’istruzione paritaria. Anche il rapporto con il resto della popolazione “giapponese” sembra essere cambiata: oggi due terzi della popolazione Burakumin sostiene di non esser mai stata discriminata ed il 79% dei giapponesi non avrebbe nessun problema a sposare un Burakumin.
Se sono indistinguibili, come è possibile riconoscere una famiglia Burakimin da una “normale”? Se non vi è differenza fisica, linguistica o culturale come può il governo fare stime e statistiche tanto precise? Nel 1975, un’azienda che si occupava di vendite per corrispondenza cominciò a commercializzare un libro intitolato Tokushu buraku chimei sokan. Il libro era stato scritto a mano, l’autore non era specificato ma le fonti erano attendibili. Sulla base dei vecchi registri anagrafici del periodo Edo sul manoscritto erano riportate tutte le aree urbane dei “ghetti” e tutti i nomi delle famiglie eta, quindi anche i cognomi degli odierni discendenti Burakumin. Ben presto la notizia fece il giro del Paese e in poche settimane ne vennero vendute migliaia di copie. I clienti erano privati cittadini desiderosi si scoprire se tra i loro vicini si aggirasse un “inferiore” oppure datori di lavoro che volevano assicurarsi di dare impiego solo ai giapponesi “giusti”. Anche se il testo fu proibito, liste clandestine continuano a circolare sul web ancora oggi, rendendo possibile il riconoscimento di un Burakumin dai caratteri che compongono il suo myoji (cognome). Sembrerebbe che persino le grandi aziende dei principali zaibatsu (gruppi capitalistici giapponesi) abbiano utilizzato il libro per regolare le assunzioni e in alcuni ambiti lavorativi il criterio della lista è ancora seguito. Un enorme paradosso considerando che in Giappone efficienza e meritocrazia impongono per l’assunzione in qualsiasi tipo di azienda un esame scritto (oltre al solito colloquio).
“La tua insegnate è eta. Sicuro. Questo è proprio un cognome degli eta.”
Quando sentii questa frase rimasi un po’ sorpreso. Agli esordi della mia esperienza giapponese non sapevo del Burakumin-mondai (problema dei Burakumin), non ne avevo mai sentito parlare. Conoscevo la parola eta, ma pensavo fosse una cosa ormai dimenticata da tempo, definitivamente archiviata nella storia di un paese “moderno” e “sviluppato” in cui lo sviluppo economico va pari passo con quello sociale. La realtà sembra essere molto più complicata di quanto si possa riportare in un questionario o un’inchiesta. Come per tutti i fenomeni sociali, non è possibile costruire un quadro generalizzante di un’intera nazione: la quantità di dati eterogenea, la soggettività, le differenze geografiche se analizzate complessivamente potrebbero portare a delle conclusioni inverosimili. Il fatto che oggi nessuno si senta discriminato non significa che i soprusi e ingiustizie siano finite. Quando la diversità non è fisica, non è linguistica né religiosa, il discrimine rimane nascosto, serpeggia silenzioso fino a quando non si mostra sotto forma di un nome e un cognome associato alla frase come questa: “Proprio questi caratteri! È un eta, o almeno, la sua famiglia in origine sicuramente lo era”…
articolo molto interessante,non conoscevo affatto questo aspetto della società giapponese.
La discriminazione è talvolta nascosta nelle buone maniere.