Intervista di Barbara al sottoscritto per Aspettando Terre di Vite (introduzione all’argomento portante della manifestazione: Multicultura).
Sebbene le due interpretazioni (multicultura ed intercultura) siano, in sostanza, diverse, si indica in Alessio Fratticcioli la persona appassionata che, dal campo,è in grado di illustrarci un’approfondita visuale di una società diversa dalla nostra.
Quindi la prima domanda si scrive da se e parte dall’incipit di un paragrafo tratto dalla sua pagina di presentazione dove scrive: “ho viaggiato un poco in Asia””…
BB: Alessio, nomini molte città invisibili alla maggior parte di noi, così come i loro abitanti. Quelle terre e quelle vite tu affermi essere (…un porto nel quale quasi mi dimenticai di esistere, sfiorando la felicità). Sfiorare la felicità attraverso il viaggio e l’incontro con luoghi e persone così diverse mi affascina, puoi raccontarci questa tua sublime sensazione?
Alessio Fratticcioli: Cara Barbara, penso che un vago desiderio di avventura, il bisogno di conoscere l’ignoto e il sogno del “superamento delle colonne d’Ercole” siano istinti connaturati nell’essere umano. Probabilmente la differenza tra me e la maggioranza delle persone e’ che io ho avuto il coraggio o l’egoismo necessario per abbandonare le certezze del proprio luogo d’origine – una casa, una famiglia, gli amici d’infanzia e, se vogliamo, una carriera – per mettermi “on the road”. Affascinato da un pericoloso intruglio di letture che andava da Levi-Strauss, Malinovski, Kerouac, Chatwin e Terzani fino ad arrivare ad Alex Garland, il mio obiettivo di partenza era di farmi viaggiatore, non turista. Credevo che un turista fosse un consumatore itinerante, spesso vittima di preconcetti e pacchetti organizzati, che va a vedere “gli altri” un po’ come i bambini vanno a vedere gli animali la domenica allo zoo; mentre vedevo il viaggiatore come un Lawrence d’Arabia, uno strano pesce camaleontico capace di nuotare a suo agio in altri mondi. Mi sbagliavo. Mentre conservo un certo fastidio verso i turisti, che solo con la loro presenza rovinano la simmetria dei luoghi che visitano, ho perso fiducia anche riguardo ai ‘viaggiatori’, che in gran parte si distinguono dai primi solo per qualche treccina in testa, i vestiti etnici, il budget più ridotto e una puntata qualche chilometro fuori dalle rotte più tracciate.
Mi sono accorto quindi che viaggiare significa analizzare desideri compresi solo a metà e che la complessità del reale non corrisponde alle nostre idealizzate speranze. Uno volta messomi in strada, il viaggiare non mi è bastato più, non solo per l’intuizione che oramai la suddetta dicotomia turista/viaggiatore è grossomodo fittizia, ma soprattutto perchè, nonostante cercassi di comprendere gli “altri”, e quindi la loro cultura, mi resi conto della difficoltà estrema di non essere meramente un portafoglio con due gambe o uno stupido intruso in casa d’altri. Capii allora che una cultura “altra” è fondamentalmente un dialogo interiore che unisce in una rete complessa passato e presente per navigare in un mondo in continuo mutamento. Il mio compito, più che farmi viaggiatore, era di presentarmi come ospite, muovermi lentamente e mettermi in ascolto, per cercare di cogliere brandelli di quel dialogo. Le poche volte che ci sono riuscito, ho provato la leggerezza e la gioia di cui ho accennato in quelle righe.
BB: Da Oriente verso l’Italia e viceversa, qual è la tua percezione dell’interculturalità alla luce delle esperienze vissute?
Alessio Fratticcioli: La maggior parte di noi è nato e cresciuto all’interno di una cultura, per cui lasciarla e immergersi in un’altra, soprattutto se lontana e diversa, ha l’effetto di demolire molte delle nostre certezze. Mark Twain disse che “viaggiare e’ fatale ai pregiudizi, al bigottismo e alla ristrettezza di vedute”. La mia esperienza personale mi porta a condividere in pieno le sue parole, anche se noto con rammarico che la cosa non e’ automatica, e molti viaggiano solo per confermare i propri pregiudizi. Ad ogni modo, per restare alla mia, personale, percezione, posso affermare che vivere in Asia, e in Vietnam in particolare, mi ha permesso di comprendere meglio non solo questa società ma anche la mia. Il Vietnam, come la gran parte degli altri paesi orientali, è una società collettivista in cui il gruppo ha la precedenza sull’individuo, la comunicazione e’ ben più delle parole e del loro significato letterale, le relazioni interpersonali sono importantissime e l’obiettivo di ogni interazione deve essere quello di conservare l’armonia. Al contrario che in occidente, e soprattutto nei paesi anglosassoni e scandinavi, dove l’individuo, la sua libertà e indipendenza sono sacri, in Oriente l’importanza centrale del gruppo fa si che l’individuo è visto, più che come singolo, in relazione agli altri, come membro di un circolo più ampio. Anche il linguaggio vietnamita riflette questa cultura. Quando si parla, raramente si usano i pronomi “io” e “tu”. Al contrario, nel dialogo si usano pronomi correlati alle relazioni parentali, al genere, allo status sociale e al livello di intimità. Ad esempio, visto che tu Barbara hai qualche primavera più di me, in vietnamita non direi “grazie Barbara” ma “fratello minore ringrazia sorella maggiore”.
BB: ”Non considero “normale” vivere in un mondo in cui due cani europei consumano ogni anno più risorse di un abitante medio del Bangladesh. […] Non considero “normale” un mondo in cui da una parte milioni di persone muoiono ogni anno perché mangiano troppo e dall’altra altrettanti milioni muoiono perché non hanno abbastanza cibo o acqua o non hanno un dollaro per comprare una zanzariera”. Sono parole tue, estratte ancora una volta dal tuo blog (sezione Chi e’ Alessio?). Dunque a te il commento.
Alessio Fratticcioli: Nell’ultimo rapporto della Fao sullo stato dell’agricoltura nel mondo, si legge che 4 miliardi di persone continuano a soffrire di carenza di ferro, mentre i restanti 2 miliardi soffrono spesso di malattie correlate a un’eccessiva alimentazione. Gli Stati Uniti d’America dal 2001 ad oggi hanno speso circa 1 bilione di dollari (un uno seguito da dodici zeri) solo per le guerre in Afghanistan e in Iraq. Una piccola frazione di quella somma (30 miliardi l’anno, sempre secondo la Fao) avrebbe potuto sradicare la fame nel mondo, salvando la vita degli almeno 6 milioni di bambini che muoiono ogni anno di malnutrizione. Notate bene la cifra! Ogni anno nell’indifferenza generale si compie una strage evitabilissima e numericamente paragonabile all’Olocausto degli ebrei. E’ questo che non ritengo normale.
[Fonte: Divino Scrivere (Grappoli di Parole per Viaggiatori di Spirito)]
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