Turchia, la strategia per prendersi il Mediterraneo

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“Mavi vatan”, o “Patria blu”, è diventata una frase comune nella vita politica turca. È spesso usata come sinonimo per le rivendicazioni marittime di Ankara nel Mediterraneo orientale. Centrale per questi interessi è la presenza di grandi giacimenti di gas naturale al largo dell’isola di Cipro. Foto War on the Rocks

Risveglio del sentimento nazionalista, “Patria blu” e neo-ottomanesimo: la Turchia vuole prendersi il Mediterraneo

(Asiablog.it) — Il 7 ottobre 1571, la flotta ottomana venne sconfitta a Lepanto dalla Lega Santa. La data è stata legata nei secoli al declino dell’espansionismo turco. Ora però Ankara ha deciso di tornare, sia sulla terra che sul mare. I diversi fronti militari aperti in Medio Oriente e Nord Africa lo dimostrano. La Turchia vuole tornare e vuole farlo in grande stile, sulla scia del neo-ottomanesimo.

I fattori che muovono la politica turca sono tre: nazionale, regionale e globale. C’è la situazione interna della Turchia, tra pandemia e recessione, Erdogan ha bisogno di una situazione che gli permetta di rinvigorire l’orgoglio nazionale, portando l’attenzione dell’opinione pubblica altrove. A livello regionale c’è la disputa con la Grecia, riguardo alla definizione delle rispettive zone economiche esclusive per lo sfruttamento delle risorse, e con Cipro, che rappresenta una vera e propria questione territoriale. Infine c’è la competizione globale con la Russia in Siria, in Libia e ora nel Caucaso meridionale.

La strategia turca per modificare a proprio favore lo staus quo nel Mediterraneo poggia sia sull’utilizzo della forza militare di terra che su diverse strategie regionali basate sull’uso della marina militare. Una di queste è la dottrina della cosiddetta “patria blu” (Mavi Vatan), che prende il nome da un libro dell’ex ammiraglio Cem Gürdeniz, di sicuro non un generale erdoganiano.

«La Turchia deve cambiare stile e politica, diventare più assertiva e attuare una politica di potenza “revisionista”, nel senso che mira a modificare le posizioni nel Mediterraneo attraverso l’utilizzo spregiudicato di risorse diplomatiche, militari e conflitti a bassa densità».

L’obiettivo è quello di creare uno spazio di egemonia economica e politica che, appoggiandosi alla marina, si estende dagli stretti del Mar Nero al canale di Sicilia, passando per quello di Suez. Insomma, alla base della dottrina della patria blu, oltre a connotazioni meramente tecniche o strategiche, ci sono elementi anche storici, i quali fanno riferimento alla personalissima teoria del presidente, di matrice nazionalista, tesa a recuperare i fasti dell’Impero Ottomano. Non a caso questa è chiamata “neo-ottomanesimo“.

Seguendo questa direttrice narrativa, non appare un caso che anche l’Egitto si senta minacciato dall’espansionismo turco e tenti, in ogni modo, di contrastare questa strategia. Quindi, la dottrina di Erdogan non si fonda principalmente su delle basi religiose, islamiste e conservatrici, bensì su precetti nazionalisti e militaristi. La componente legata alla fede è semplicemente uno strumento per tenere unito il fronte islamista.

Ma attenzione a non confondere lo spirito nazionalista turco con quello del suo presidente. Associare le mosse di Ankara alle ambizioni personali di Erdogan significa ignorare la storia della geografia turca. Un uomo di potere deve fare i conti innanzitutto con la realtà storica e culturale che eredita una volta salito al soglio più alto. Ma non può altresì ignorare la collocazione geografica del proprio Paese, la quale contribuisce a creare una tradizione che si inserisce nello spirito di un popolo. La somma di tutti questi elementi costituisce la base di partenza per l’elaborazione di ogni dottrina geopolitica. E sia quella della “patria blu” che quella della “profondità strategica”, del professore ed ex ministro degli Esteri di Erdogan Ahmet Davutoglu, sono state elaborate ben prima della salita al potere dell’attuale presidente.

Ciò non significa che gli interessi turchi in politica estera non creino un certo disagio nella regione. È vero il contrario: una politica di potenza, e specialmente una che non ammette alleati, a lungo termine entra inevitabilmente in rotta di collisione con altri stati, creando tensione negativa.

La questione cipriota, una minaccia energetica al futuro dell’Europa

La dottrina della “Patria blu” viene insistentemente applicata da Erdogan nella zona marittima del Mediterraneo orientale. In questa zona la disputa più pericolosa è probabilmente quella per l’isola di Cipro, divisa dal 1974 in una Repubblica di Cipro greco-cipriota, riconosciuta internazionalmente e membro dell’Unione Europea (Ue), e l’autoproclamata Repubblica Turca di Cipro del Nord, riconosciuta dalla sola Turchia. Questa delicata situazione diplomatica rende difficile le operazioni di esplorazione e sfruttamento dei fondali marini ciprioti, ricchi di idrocarburi.

Alla fine di agosto un incidente, in cui una nave da ricognizione turca si è scontrata con una nave da guerra greca in acque rivendicate da entrambi i Paesi, ha fatto temere il peggio. Ad inizio ottobre il Consiglio europeo ha approvato un testo riguardante il caso cipriota in cui l’Ue si impegna ad adottare delle sanzioni nei confronti di Ankara nel caso in cui i turchi dovessero riprendere le esplorazioni di idrocarburi nelle acque contese. La posizione comunitaria, comunque, è meno netta di quello che sembra. Il presidente Charles Michel ha infatti precisato che Bruxelles adotterà una “doppia strategia” nei confronti della Turchia, mettendo da parte sì una minaccia di sanzioni ma anche un incremento delle relazioni bilaterali se Ankara smetterà di dar luogo ad “azioni unilaterali contro il diritto internazionale”.

La classica strategia del bastone e della carota, però, non ha convinto il governo turco. E non convince nemmeno gli stessi europei. In molti hanno fatto notare, a ragione, che una strategia di questo tipo può essere adoperata nel momento in cui uno dei due contendenti si trovi in una posizione di relativa forza rispetto all’altro. Non è questo il caso, dato che la Turchia ha mostrato più volte di saper mettere in difficoltà gli europei, soprattutto quando si parla di immigrazione.

La Libia

Un’altra “vittoria” della politica turca è sicuramente l’intervento in Libia, a discapito principlamente dell’Italia, una nazione che da tempo ha perso la sua vocazione per la politica estera. Erdogan è intervenuto in soccorso di Fayez Al Serraj, il capo del Consiglio presidenziale libico, nella guerra che lo vede coinvolto con il generale Khalifa Haftar, che è a capo delle milizie legate al governo della Libia orientale. Seppur il conflitto si sia avviato a conclusione, il merito non è sicuramente dell’Europa bensì della volontà di Russia e Turchia di spartirsi le zone di influenza nello stato nordafricano. Un esempio? L’accordo per far ripartire la produzione e l’esportazione di petrolio, promosso da Erdogan e dal presidente russo Vladimir Putin e salutato come un successo politico del “dialogo”.

Se da un lato le responsabilità del Belpaese sono evidenti, dall’altro non si può non negare che l’indecisione europea sul da farsi e il totale disinteresse degli Stati Uniti per un dossier aperto ai tempi di Barack Obama, abbiano fortemente compromesso la posizione dell’alleanza occidentale in Nord Africa. Senza dimenticare che ciò ha permesso ad agenti esterni di infiltrarsi nel territorio libico e di banchettare assieme alle forze maggiori. Questo è il caso del Qatar, che ha firmato con Erdogan un accordo per usare le basi che Al Serraj ha concesso alla Turchia con la frottola dell’addestramento dei soldati libici.

Il Caucaso

Un altro fronte è quello recentissimo del Caucaso, da sempre una zona sotto il controllo della Russia ma che è diventata contesa a causa della pandemia, che ha costretto Putin a ritirarsi temporaneamente in attesa di tempi migliori. Lo scontro in corso tra Armenia e Azerbaigian sta suscitando una comprensibile apprensione internazionale anche a causa dell’intervento a gamba tesa di Erdogan, il quale ha preso le difese degli azeri, dichiarandosi pronto a fornire supporto militare a Baku. L’apertura di questo fronte risponde alla volontà turca di espandere la propria influenza in una regione ricca di risorse energetiche. Va sottolineato che l’Azerbaigian è un hub importantissimo per il futuro dell’intero continente europeo, dato che diversi oleodotti e gasdotti dovrebbero passare proprio di lì, come ad esempio il Gasdotto Trans-Adriatico, il Tap e l’East-Med.

L’inserimento turco in diversi scenari politici e geografici, se da un lato conferma la volontà di Ankara di spostare gli equilibri del Mediterraneo, dall’altro potrebbe rivelarsi molto pericolosa, poiché nel caso in cui la Turchia dovesse subire una sonora sconfitta, questa produrrebbe delle conseguenze sulla politica interna che danneggerebbero principalmente il suo presidente, una figura fortemente esposta e, di conseguenza, facile capro espiatorio.

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Donatello D'Andrea
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About Donatello D'Andrea

Studente magistrale di Scienze della Politica presso La Sapienza, si è laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali con una tesi sulla storia dell'idea politica d'Europa. Scrive per diverse testate italiane e internazionali, occupandosi di politica interna, politica internazionale e geopolitica. Non sempre imparziale, ma intellettualmente onesto.
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