
The Recyclers | La vita dei migranti birmani nella discarica di Mae Sot – © Vincenzo Floramo
Lungo il confine tra Thailandia e Myanmar, la città di Mae Sot è diventato un rifugio per molte famiglie di immigrati birmani, anche illegali.
Circa cinquanta famiglie vivono in una grande discarica appena fuori Mae Sot, abitano in capanne di bambù costruite su montagne di rifiuti e vivono recuperando materiali riciclabili che poi rivendono.
Ma i rifiuti arrivano alla discarica dopo essere già passati attraverso un doppio processo di selezione, il che rende ancor più difficile recuperare materiale riutilizzabile, e quel che resta permette loro di guadagnare circa 100 baht (2,5 euro) al giorno.
Foto documentario del fotografo italiano Vincenzo Floramo
«Il tema è: l’uso della fotografia nelle scienze sociali. Uso e abuso.
La fotografia come documento e come testimonianza, come profanazione dell’altro e come droga, evasione, «copia» d’una realtà non esperita.
La fotografia: come ricordo della realtà, come realtà vissuta, fuggita; quindi, la fotografia come resurrezione del reale, come rimedio alla polvere del passato.Ecco: la fotografia come lotta contro la morte, un’illusione di immortalità.
La fotografia è già un’operazione industriale e commerciale di proporzioni enormi.
Su questo gesto primitivo e un poco buffo –clik – si sono costruiti potentati economici imponenti; … ma di tutto questo non sappiamo ancora il significato.
Siamo così affaccendati, così assorti nelle nostre cure, così iperattivi che le domande più semplici e più importanti non riescono ad aprirsi un varco; restano implicite, sepolte, forse soffocate nella congerie delle decisioni pratiche, impigliate e perdute nelle tecniche del meccanismo.… Fotografare vuol dire saper aspettare, circuire, avvitarsi sull’oggetto a ghermirlo: repentinamente; saper decidere di colpo, all’improvviso, avendo a disposizione la frazione di un secondo, come il cacciatore d’anatre nella botte in palude.
Ma la fotografia è la negazione, l’antitesi netta di fotocrazia. Comprendere contro dominare, testimoniare contro catturare.
Testimoniare sulla vita oppure ritagliare, cioè sezionare mutilare la vita?
C’è in ogni fotografia autentica, non puramente evasiva o estetizzante, il lamento di una ferita inferta a tradimento al corpo unitario del vivente.Fotografia, dunque, come violenza, come lacerazione e mutilazione.
Fotografare, cioè circuire l’oggetto, ambirlo.
La virtù del fotografo è la pazienza unita all’ostinazione. Occorre saper attendere, ma anche colpire giusto, nel momento giusto, senza esitazione, come un cacciatore di razza.
Il fotografo non necessitato, il fotografo turistico è come un cacciatore privo di fucile, di occhi, di mira, di nervi e di scatto.La fotografia è l’occhio del ciclope. Ma la realtà umana è Odisseo che fugge aggrappato al vello del caprone. Il ciclope urla, afferra, cattura, spietato e onniavvolgente, il suo occhio è come un obiettivo grand’angolo, onnicomprensivo e cieco a un tempo.
La realtà umana non è nella fotografia. Poiché la realtà umana è significato – concrezione, costruzione di significati rappresi – essa non può trovarsi nella fotografia, ma nell’intenzione del fotografo.
Se non c’è l’intenzione, cade anche il significato, cioè il criterio selettivo, il dato emergente, la variabile decisiva.
Resta solo il gesto – clik – troppo facile per non riuscire stupido, per non divenire il riflesso condizionato di una felicità indomenicata di massa che non può tollerare l’idea del proprio annientamento storico.»
(Dal documento alla testimonianza. La fotografia nelle scienze sociali, Franco Ferrarotti, Liguori Napoli 1974 – in Le idee della fotografia. La riflessione teorica dagli anni sessanta a oggi, Claudio Marra – Ed. Bruno Mondadori)
Qui il reportage The Recyclers di Vincenzo Floramo
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