«Il tema è: l’uso della fotografia nelle scienze sociali …
Fotografare significa “scrivere con la luce”: scrivere, cioè segnare, significare, distribuire la luce sulla realtà in modo che colpisca con intensità differenziata il marmorizzato dato del quotidiano, chiamarlo in vita nel chiaroscuro.
Scrivere con la luce vuol dire, come prima condizione, aver bisogno del buio, evocare le ombre.
La “bellezza” è nemica mortale, certo la più insidiosa, della fotografia nelle scienze sociali.
Devia l’occhio e l’attenzione dalla testimonianza interpretativa del fatto e della situazione umana determinata verso una visione estetizzante e diluita.La commozione, insieme con la bellezza, è una cattiva consigliera.
Non bisogna fotografare i bambini se non in quanto annunciano un modo di vita, cioè una condizione strutturale, non emotiva, e di questa sono gli stenogrammi. I bambini vanno fotografati solo nella misura in cui riescono utili come abbreviazioni, ossia simboli, come rappresentazione abbreviata, concentrata e compressa, per così dire, di una situazione globale.
La povertà è noiosa, si ripete.
Dalle baraccopoli romane e dai “bassi” di Napoli alle “coree” di Milano, alle “favelas” di Rio de Janeiro, alle “villamiserias” di Buenos Aires, alle “poblaciones” di Santiago del Cile, alle “barajadas” di Lima, ai disperati di Harlem o alle persone che cadono addormentate ogni sera sui marciapiedi di Bombay, la testa raccolta nel canestro che è la loro unica proprietà: al di sotto d’una certa soglia, la povertà è sempre la stessa, immutabile e monotona come la vita. Ma fotografare la povertà è difficile perché è difficile fotografare la mancanza di oggetti, il vuoto, la penuria.… Bisogna fotografare la povertà con pazienza e devozione.
Ma ciò significa fotografare la povertà come realtà umana, secondo un taglio problematico che ne scopra di volta in volta il senso. Si spendono miliardi per esplorare lo spazio, ma perdiamo intanto appuntamenti importanti, decisivi con la condizione umana.
La fotografia soffre oggi una crisi acuta: di identità e di ruolo. I fotografi sentono di essere a una svolta.
La grande rivista Life, tutta da guardare, ha chiuso i battenti. Come riuscire a competere, in accuratezza e tempestività, con la ripresa televisiva in diretta? Life è morta insieme alla fotografia di papà e con quella, stucchevole o estetizzante, detta genericamente artistica, rimasta monopolio di magistrati in pensione a decorare la realtà di oleografici luoghi comuni.
La semplice documentazione, che già ebbe la sua grande stagione, è battuta in partenza per ragioni puramente tecniche. Per sopravvivere come impresa umana significativa sul piano culturale e politico, la fotografia deve rinnovarsi, trovare la via che la porti dal documento, ancora sociografico e naturalistico, alla testimonianza.»(Dal documento alla testimonianza. La fotografia nelle scienze sociali, Franco Ferrarotti, Liguori Napoli 1974 – in Le idee della fotografia. La riflessione teorica dagli anni sessanta a oggi, Claudio Marra – Ed. Bruno Mondadori)
Qui il reportage Yangon Unplugged del fotografo italiano Vincenzo Floramo
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